ADRIANO OLIVETTI / Domani ricorre l’anniversario della morte: quando un impresa partiva dall’uomo e dalla sua ‘fiamma divina’

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LACROCE – Articolo di Mirko De Carli – Il 27 febbraio 1960, mentre viaggiava sul treno Milano-Losanna, muore Adriano Olivetti a causa di un’improvvisa emorragia celebrale. 55 anni fa moriva quindi l’imprenditore di IVrea, celebre per le macchine da scrivere conosciute in tutto il mondo, che aveva fatto della parola COMUNITÀ il proprio modo di vivere, di fare impresa, di fare cultura, di fare storia. Cogliamo l’occasione dell’anniversario della sua morte per approfondire queste due domande: chi era veramente Adriano Olivetti e cosa voleva concretamente dire, per lui, ‘fare comunità’? Ciò che più colpisce e affascina dell’uomo Olivetti era il rispetto per le idee, il persistente bisogno di radicare la legittimità sostanziale e non solo formale nella comunità stessa dove essa nasce e una coerenza, etica e non solo, davvero unica. Tutto questo era frutto della cultura in cui era nato e cresciuto: il padre Camillo, fondatore della azienda Olivetti, era ebreo e la madre era valdese.

La componente valdese, in Adriano, fu decisiva e incise molto nella formazione del suo carattere. In lui si ritrovano due fattori che, non sempre, trovano corrispondenza l’uno con l’altro: un grande imprenditore, un grande uomo. Adriano Olivetti lo è stato, insieme, l’uno e l’altro: da un lato aveva l’occhio visionario dell’imprenditore, dall’altro il cuore e lo spirito della persona che pone ogni suo progetto al servizio degli altri, del bene comune. La sua visione, la sua ‘utopia concreta’ consisteva nel trasformare la sua città Ivrea e il Canavese in una comunità concreta, dove fosse diffuso un tenore di vita per la classe lavoratrice alto e un’armonia sociale capace di creare bene per tutti, non solo per l’azienda. Non è un caso che negli anni in cui gli scioperi imperversavano nel paese, nelle fabbriche Olivetti non è mai stata indetta un’ora di sciopero .

Si possono comprendere molto bene le ragioni di tutto questo rileggendo le parole usate dallo stesso Olivetti per inaugurare lo stabilimento di Pozzuoli nel 1960: ‘può l’industria darsi dei fini? Può trovarsi questa semplicemente negli indici dei profitti? Vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica? La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, dell’arte e della cultura. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina e nella sua possibilità di elevazione e di riscatto’. L’uomo al centro di tutto. Un’umanesimo industriale che ha lasciato segni buoni capaci ancora oggi di interrogarci. Ma cosa intende Olivetti per valori spirituali? Si riferisce alle ‘autentiche forze spirituali che rimangono eterne nel tempo e immutabili nello spazio, da Platone a Gesù, ovvero l’amore, la verità, la giustizia e la bellezza.’ Un riferimento talmente decisivo che Olivetti arriva a dire che ‘gli uomini, le ideologie, gli stati che dimenticheranno una sola di queste forze creatrici, non potranno indicare a nessuno il destino della civiltà”. Per questo Adriano Olivetti ha rappresentato e rappresenta tuttora l’esperienza di un uomo unito e non diviso, ovvero capace di tracciare un punto di riferimento valoriale attuabile in qualsiasi circostanza della vita, dal lavoro alla famiglia. Oggi ci troviamo invece in una società dove l’uomo è fortemente diviso: l’esempio di questo lo si può trovare in tanti giovani che antepongono la stabilità finanziaria al matrimonio, che vedono nel diventare genitori un ostacolo per il loro successo, che vedono nel prossimo un problema e non un’occasione di bene per la comunità. Riscopriamo nella vita di Adriano Olivetti questa urgenza di amore, verità, giustizia e bellezza. Parole oggi, purtroppo, desuete. Parole, invece, estremamente necessarie per comprendere quanto la società contemporanea, si stia distaccando da ciò che corrisponde a pieno al desiderio vero, e non deviato dal pilota automatico dei mass media, che Olivetti audacemente definì con i termini sopra riportarti. Lo stesso imprenditore di Ivrea arrivò a muovere una dura e decisa critica ai partiti attraverso la seguente frase: ‘molte coscienze oggi sono in crisi, in una crisi dolorosa, perché per esse i partiti non hanno rispettato la verità, non hanno avuto tolleranza e hanno in qualche modo, tradito gli stessi ideali dai quali erano nati’. Parole chiare, chiarissime che descrivono il problema della società contemporanea: o ripartiamo da una relazione critica ma positiva con la verità di noi stessi e di ciò che ci sta attorno o costruiremo un mondo che non vedrà l’uomo al centro, ma l’uomo servo. In Olivetti la potenza del pensiero cristiano, vissuto e proposto da laico innamorato della libertà, trova consistenza nella dinamica della comunità concreta. Lui credeva che solo riattivando il meccanismo di un corpo intermedio tra stato e cittadino come la ‘comunita” si potesse rinsaldare il legame sociale comunemente definitivo come ‘democrazia’. Una comunita’ dove il lavoro e la sua dignità ritrovano spazio, perché solo ridando dignità al lavoro si può ricreare quel circolo virtuoso di fiducia negli uomini capace di rinsaldare speranza anche nelle istituzioni pubbliche, e non solo sfiducia e disprezzo. In questa azione vede un ruolo decisivo della fabbrica: ‘la fabbrica’ dice lo stesso Olivetti ‘deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura. A volte, quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza’. La comunità non è altro che il ‘diaframma umano fra individuo e stato’, scriveva Olivetti facendo sua l’interpretazione realista della comunità, che ha fatto della comunità un corpo reale e vivente, intermedio: un microcosmo di piccole, primarie relazioni personali che rapportano l’uomo al variegato mondo dei valori economici, morali, politici e religiosi.

La «comunità concreta» di Olivetti era il piccolo nucleo sociale concepito sul modello della famiglia, come «unità di sentimenti» piuttosto che come entità politica, come «ordine concreto», radicato nella vita, nel lavoro, nella cultura. La comunità olivettiana, in altri termini, è territorialmente definita, vivibile, né troppo grande né troppo piccola, dove è possibile stabilire contatti diretti tra le persone e l’ambiente, che a tutte le attività umane fornisce efficienza e, soprattutto, rispetto della «persona», «della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori». Parole di una attualità incredibile che ci fanno comprendere meglio quanto ci sia bisogno oggi di una visione comunitaria della società. Perché solo riponendo al centro della vita l’uomo, non come strumento di potere e danaro ma come soggetto della storia capace di mostrare quella straordinaria accezione olivettiana della ‘fiamma divina’, potremo davvero costruire un mondo dove vinca l’amore, la bellezza, la giustizia e la verità.

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