CRISI UCRAINA/ Cronaca da una guerra senza onore

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ILSUSSIDIARIO – Editoriale di Nina Semiz – Oggi persino a Kiev questa guerra all’Est, così non voluta e incomprensibile, d’un tratto è diventata più reale, vicina, spaventosa. L’escalation militare delle ultime settimane ha finito per rompere le ultime difese psicologiche. Nella capitale ormai si teme la guerra piena, totale. Il presidente Porošenko ha dichiarato che se non si verrà a un accordo sicuro il governo dichiarerà lo stato di guerra e questo avrà molte conseguenze negative: la prima è che diventerà impossibile all’Ucraina (per chissà quanto tempo) entrare a far parte dell’Unione Europea, poiché nessuno Stato con conflitti in atto può entrarvi.

E ancora, che ci sarà la chiamata generale alle armi, e anche questo è un passo cui nessuno è pronto: non i ragazzi, né le famiglie. Finora hanno combattuto soprattutto i volontari. Il Majdan con tutti i suoi rischi è stato come un gesto naturale, considerato accettabile e necessario, ma questa guerra sporca, “ibrida”, “fratricida” come la chiamano, da combattere contro professionisti, no.

Questo è l’orizzonte oscuro che si apre davanti a un paese in crisi economica, in preda all’inflazione, che fatica e si sforza di ripartire su un piede nuovo ma è ancora assediato dall’inerzia della vecchia corruzione.

Guardando a ritroso si riconosce chiaramente la strategia usata per seminare lo scontro civile in tutto l’Est ucraino; ovunque ci fossero gruppi di potere legati a Janukovic e i loro clienti si è cercato di costruire “l’antimajdan”, gruppi di provocatori diretti da emissari russi, che dovevano creare l’impressione di una protesta popolare filorussa. In alcuni luoghi la cosa è riuscita, come nel Donbass, in altri no, come a Charkov, Odessa, Marjupol. Nel Donbass è scoppiato l’incendio, che la popolazione in parte ha sostenuto, vuoi per sfiducia verso il governo di Kiev, vuoi per la propaganda martellante della tivù russa sui “fascisti ucraini”, e si è trovata così in mezzo a uno scontro di enorme portata. Ma se non fosse stato per l’intervento militare di Mosca, i partigiani filorussi locali sarebbero già stati sconfitti da tempo. L’intervento russo è iniziato già a luglio, con i razzi sparati da oltre confine, poi, dalla fine di agosto, sono entrate le truppe e i mezzi corazzati. Qualche analista arriva a calcolare in 12mila uomini le forze russe in loco, con 235 carri armati, 720 blindati, 263 sistemi d’arma, e il flusso continua attraverso una frontiera che ormai nessuno più controlla. Ma nonostante l’evidente disparità delle forze, gli scontri sono stati accaniti e con alterne vicende: Slavjansk e Kramatorsk, ad esempio, sono state per tre mesi in mano ai separatisti per poi passare in mano ucraina; così è stato con l’aeroporto di Doneck, ora in mano filorussa. Il territorio orientale risulta oggi a macchia di leopardo, non nettamente diviso tra i due fronti ma frastagliato e conteso metro per metro, paese per paese.

In questi giorni, mentre a Minsk si tenta un nuovo accordo (l’ultimo, secondo Hollande), assistiamo a una nuova escalation con il bombardamento di Kramatorsk, il rinnovato assalto di Marjupol, il 3 febbraio, e l’assedio di Debalcevo, più a nord, ormai chiusa in una sacca. E dall’altra parte si risponde colpo su colpo, in una guerra che non ha più limiti e fronti, tanto più reale quanto più è offuscata dalla propaganda.

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