Le idee chiare di De Gasperi. Il commento di Lucio D’Ubaldo

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ILTEMPO – De Gasperi aveva idee chiare sulla ricostruzione dell’Italia e le aveva nondimeno in funzione di ciò che riguardava l’incerto futuro dell’Europa, schiacciata sotto le sue macerie e ormai contesa dai vincitori effettivi della seconda guerra mondiale: l’America di Roosveelt e l’Unione sovietica di Stalin. Alla rinascita della democrazia e della libertà le nazioni che un tempo si contendevano il dominio del mondo potevano solo misurare la distanza abissale rispetto allo scenario, ovunque osservato dai quattro angoli del continente, di devastazioni e miseria incombente. Erano idee, quelle di De Gasperi, che nascevano e vivevano nel confronto diretto e sempre severo con i grandi protagonisti della ricostruzione italiana. Da un lato i laici Einaudi, Sforza, Saragat, Corbino; dall’altro i cattolici Gonella, Vanoni, Piccioni, Fanfani. Loro e altri ancora, s’intende: tutti comunque, laici e cattolici, dotati di forte personalità e peso politico. Non erano gli “uomini di De Gasperi” – per semplificare, stando al lessico odierno, la sua squadra – bensì gli interlocutori o gli alleati al servizio, come lui, di una esperienza politica condivisa. L’Italia del miracolo economico e l’Europa dei sei Paesi fondatori sono stati la proiezione di un pensiero politico e di una vera classe dirigente. Ma quali erano queste idee? A cavallo della entrata in guerra, quando ancora il fascismo spargeva fiumi di retorica sui destini del nuovo impero di Roma, dal suo ufficio di modesto bibliotecario Vaticano il non più giovane Alcide De Gasperi poteva scorgere i segni di un declino inarrestabile del regime mussoliniano, pericolosamente incamminato sulla strada dell’alleanza politico-militare con la Germania hitleriana. La percezione di un fatidico azzardo spingeva il più prestigioso dei popolari antifascisti a riprendere e a costruire contatti, senza chiusure generazionali o perverse alchimie di potere, per accelerare la formazione del partito della Democrazia cristiana. Egli era convinto che i cattolici dovessero sperimentare il massimo di unità possibile e soprattutto, immaginando quanto sarebbe stato arduo affrontare le incombenze del dopoguerra, non dovessero commettere l’errore di “fare come Meda”. Dovevano pertanto essere pronti, ove le circostanze lo avessero richiesto, ad assumersi le responsabilità – quelle che il popolare Filippo Meda non volle accettare declinando nell’estate del 1922 l’incarico di formare il governo – di guida della nazione. Altrettanto chiaro, agli occhi di De Gasperi, fu il senso della missione che l’Italia poteva assolvere come parte del nuovo ordine mondiale.

Pertanto la rottura del 1947 con i comunisti e i loro alleati non rispondeva ad altro se non alla volontà di impegnare con fermezza e lealtà la nuova Italia al fianco dell’America e dei Paesi liberi dell’Occidente. Agli inizi della guerra fredda, dinanzi alla minaccia rappresentata dalla potenza sovietica e dall’espansionismo staliniano, non era sostenibile la prosecuzione di un’alleanza che in nome dell’unità antifascista impediva d’identificare le ragioni della contrapposizione geo-politica lungo il confine della Cortina di ferro: a sinistra si pretendeva di schierare l’Italia sulla linea di un generico e alquanto rischioso neutralismo. De Gasperi seppe legare la scelta atlantica alla fondazione di una Europa tutta nuova, a dimensione federale, unita dopo secoli di guerre nazionali, specialmente sul confine tra Francia e Germania: dunque un’Europa capace d’incarnare, con la forza e il prestigio delle sue istituzioni, un futuro di pace, di libertà e di progresso. Non era un percorso scontato. È vero, di unità europea se ne era parlato a più riprese e già, in particolare, alla fine del primo conflitto mondiale. Ora però, dopo la tragedia scatenata dal nazi-fascismo e la distruzione materiale e morale del Vecchio Continente, il problema consisteva nel superamento del nazionalismo come ideologia della supremazia di un popolo su un altro, con ciò dimenticando le comuni radici e le robuste affinità dei diversi popoli europei. Ecco, dunque, l’affresco di un’Europa carolingia. Se oggi è “rito” di burocrazie ed élite finanziarie, almeno nel sentire di un certo opaco antieuropeismo, nel pensiero di De Gasperi era o doveva essere “mito”: quello, anzi solo quello, che la rinata democrazia era in condizione di esibire ai cuori e alle menti delle giovani generazioni. Per questo, con sobria determinazione tutta trentina, non esitò a stroncare l’iniziale progetto britannico di un’Europa antitedesca. Il nuovo orizzonte europeistico non autorizzava l’armatura di una politica stile Versailles, con i vincitori asserragliati, alla stregua del trattato di pace del 1919, nelle loro pretese a corto raggio e con l’insano obiettivo di umiliare la Germania. Il mito, per essere tale, aveva bisogno di nutrirsi del pane della fiducia e della solidarietà.

La nostra speranza non risiede nel mettere a repentaglio il capolavoro di De Gasperi. L’Europa è ancora un mito che si distende nella sequela di questi decenni tormentati, eppure eccezionali a tratti e persino esaltanti. La cortina di ferro non c’è più e quindi non c’è più la frattura dolorosa tra est e ovest nello spazio della geo-politica continentale: di conseguenza, con l’ingresso di nuovi Stati membri, è cresciuta la dimensione dell’unione sovranazionale e si è dilatata, con l’introduzione dell’Euro, la sua capacità finanziaria e commerciale. Ora ben diverse aspettative rendono per alcuni versi mediocre lo stato presente dell’europeismo, ma non al punto di inibirne le possibili evoluzioni a vantaggio di un benessere sociale altrimenti corroso dalle dinamiche spietate della globalizzazione. A De Gasperi, come d’altronde a Schumann e Adenauer, si deve tutto intero il riconoscimento per un’opera di coraggiosa volontà politica, solo in minima parte riducibile a formula di ingegneria istituzionale. È dovere nostro andare avanti.

Oggi il 60° anniversario della morte del grande statista, il vero costruttore della Repubblica italiana

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