Lucio D’Ubaldo, il vincolo dell’elezione diretta dei Senatori

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Futuro Europa – Se non si combatte la battaglia delle idee, si accetta l’oblio come condizione normale o destino ineluttabile. Si perde il legame prezioso con fatti e testimonianze, si cancella dalla memoria la lezione di maestri di vita politica. Sulle riforme istituzionali il nome di Leopoldo Elia, ex Presidente della Corte costituzionale e parlamentare di assoluto prestigio, ormai non ricorre più in alcun modo. Manca, in realtà, il suo spirito critico e la sua autonomia di pensiero. Non ebbe timore, laddove necessario, di sfidare con le sue incisive riflessioni opacità e incongruenze del dibattito pubblico. Ai cattolici democratici ha insegnato a riconoscere nei passaggi cruciali il senso della responsabilità e quindi, all’occorrenza, anche il dovere dell’opposizione.

In effetti l’autonomia di una forza politica, o per meglio dire la sua intima connotazione ideale, sta soprattutto nella capacità di dire no. Ovvero sta nella sua esplicita e nitida reazione, anche a prescindere dalle convenienze fortuite, più che nella istintiva e generica azione del giorno per giorno. È sbagliato rifugiarsi nelle mezze misure. Quando lo si consideri imprescindibile, specie nel contesto di scelte dirimenti, serve fare ricorso alla virtù dell’intransigenza.

La riforma della Costituzione sta scivolando nel pantano delle aspirazioni confuse e finanche arbitrarie, senza che vi sia riferimento alcuno a organiche dichiarazioni programmatiche poste al vaglio preventivo del popolo sovrano. In campagna elettorale, nel 2013, non si è avuta traccia di quanto invece oggi si prevede di realizzare in Parlamento. Da dove scaturisce, dunque, la legittimità di un intervento che scardina l’impianto della Carta voluta dai costituenti? L’interrogativo merita una risposta, ma nessuno è in grado di fornirla. Anche nelle primarie, gli attivisti e i simpatizzanti del Partito democratico hanno accompagnato con il loro voto la nuova leadership renziana senza conoscerne gli indirizzi e le opzioni di politica istituzionale. Eppure quella investitura plebiscitaria autorizza a credere – o peggio ad imporre – che il “cambiare verso” all’Italia sia il paradigma di senso per fare qualsiasi cosa.

L’operazione che porta al cambiamento della struttura e della funzione del Senato è costellata di errori. Nel mondo dei costituzionalisti cresce pertanto il timore per un approccio che lascia intravedere la possibilità di squilibri futuri. Sembra, purtroppo, che l’ansia di novità giustifichi la manipolazione delle norme fondamentali. Nessuno, ad esempio, è in condizione di spiegare perché la seconda Camera debba ridursi – Berlusconi dixit – a un dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci (chissà se meritevoli o immeritevoli di immunità parlamentare). Sulla modalità della loro elezione basta alzare la paletta dell’antipolitica.

Al contrario, Leopoldo Elia era convinto che occorresse superare il bicameralismo perfetto; ma nondimeno, senza modificare opinione nel tempo, aveva escluso l’ipotesi di una diversa e incongrua selezione dei membri della Camera e del Senato. Con la sua pregevole relazione in Aula a Palazzo Madama, il 16 maggio 1990, aveva fatto osservare come nei lavori della Costituente fosse possibile rinvenire le chiare e insuperabili motivazioni a favore della elezione diretta dei Senatori. Egli, dopo aver illustrato il dibattito che aveva principalmente impegnato comunisti (sostenitori del monocameralismo) e democristiani (sostenitori del bicameralismo) nella Sottocommissione dei 75, evidenziava che alla fine i Commissari avevano “optato decisamente a favore della elezione diretta della seconda a Camera”. Per questo, da politico e da giurista, dichiarava che il processo di riforma implicava lo sforzo di attenersi, anche secondo il richiamo dell’allora Presidente del Senato Giovanni Spadolini, “allo spirito della Costituente e dei suoi lineamenti di fondo”; sicché, concludeva, “alle scelte positive (…) bisogna ovviamente ricondursi. E con tali scelte contrasta ogni riforma che comporti una elezione di secondo grado del Senato”.

In sostanza il giudizio di Elia faceva argine alle peripezie di quanti non avvertivano il rischio di vulnerare, su questo punto assai delicato, l’impostazione originaria dei Padri costituenti. Sono passati ventiquattro anni e le peripezie sono diventate progetto di riforma. Ora si tratta di capire cosa sia cambiato, nel corso della seconda repubblica e all’inizio dell’esperienza renziana, per giustificare in via pratica la derubricazione di una meditata e armonica riflessione sul bicameralismo. Così, evidentemente, si finisce per cedere a impulsi di tipo giacobino con il pretesto, in verità troppo facile, della semplificazione del procedimento legislativo. È il modo, questo, per deturpare il volto di un nuovo bicameralismo.

In ogni caso, spiace constatare che il cattolicesimo politico sia paralizzato nella capacità di recupero e aggiornamento del suo rispettabile patrimonio di cultura e sensibilità politico-istituzionale. Fare tesoro della lezione di Elia, ricca nel complesso di suggestioni ancora vitali e legata nello specifico all’esperienza “unitaria” della Democrazia cristiana, avrebbe un significato importante in questa fase di smarrimento e frantumazione dei popolari italiani. Ha poco senso almanaccare sul futuro quando si sciupa la responsabilità del presente. La bandiera, intessuta di idee e programmi per l’Italia di domani, va ripresa in mano con grande coraggio.

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