Tutte le crepe della riforma renziana delle province. L’intervento di Menorello, coordinatore dei Popolari per l’Italia del Veneto

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FORMICHE – Leggendo d’un fiato la disciplina per il rinnovo degli organi provinciali del 12 ottobre e le riforme costituzionali targate PD sopravviene una inquietante sensazione. Vi sono crepe, cioè, che evidenziano una inedita rottura addirittura dell’uguaglianza elettorale dei cittadini nelle Istituzioni, con la retrocessione degli abitanti delle aree rurali a tutto vantaggio di quelle urbane.

Crepa n. 1). Una premessa: le nuove Province di cui alla Legge 7 aprile 2014, n. 56, uscita dalla penna di Del Rio, esistono ancora e rimangono a fare grosso modo quel che facevano prima: pianificazione territoriale, tutela dell’ambiente, trasporti provinciali, costruzione e gestione di strade d’area, programmazione ed edilizia scolastiche, controlli in ambito occupazionale (art. 1, c. 85). Ora, però, per approvare lo Statuto e, soprattutto, i bilanci bastano solo “i voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni compresi nella provincia e la maggioranza della popolazione complessivamente residente” (art. 1, comma 55). Per capirci: in Italia, nei Comuni con più di 10.000 abitanti risiede il 54,8% della popolazione, mentre gli enti locali con popolazione inferiore ai 5000 abitanti sono il 70% del tutto (cfr www.comuniverso.it), che diventano irrilevanti al fine di stabilire ordinamenti statutari e finanziamenti dei servizi provinciali.

Crepa n. 2). Qualcosa delle Province è stato abolito per davvero: il suffragio universale per eleggerne gli organi. Presidente e Consiglio provinciali verranno scelti solo da sindaci e consiglieri comunali. I quali, però, elettori uguali non sono. Infatti, il comma 33 dell’art. 1 della stessa L. 56/14 inventa la divisione dei Comuni in ben nove fasce demografiche con un meccanismo di attribuzione ai consiglieri comunali di un peso elettorale differenziato. Molto differenziato! Qualche esempio. Nella Provincia di Padova (www.provincia.pd.it) per equiparare il peso del voto di un amministratore di un Comune di 10.000 abitanti (fascia D) serviranno i voti di quasi tre consiglieri di Comuni di 5000 abitanti (fascia B). Ancora: un consigliere/elettore di fascia A (< 3000 ab) peserà anch’esso un terzo di un collega di fascia C (< 10.000 ab.), ma meno di un quarto di un consigliere di un Comune fino a 30.000 abitanti (fascia D), e, addirittura, 1/30° (un trentesimo!) di un consigliere del Comune capoluogo (fascia F). Insomma, il voto per eleggere Consiglio e Presidente espresso da un consigliere del Comune di Padova varrà t-r-e-n-t-a consiglieri del piccolo Comune rurale di Barbona (che, comunque, ne ha solo dieci …).

Continuiamo a guardare qualche dato delle incredibili conseguenze della legge Del Rio nell‘emblematico esempio padovano. Il peso elettorale attribuito al capoluogo (22.816 voti ponderati) supera la sommatoria di tutti i voti ponderati esprimibili dai 50 comuni della provincia con meno di 5000 abitanti messi assieme (che sommano a 17.814 voti ponderati globali). Anzi, da soli, i Comuni di fascia superiore ai 10.000 (circa 1/3 del totale …) sono ampiamente sufficienti ad ottenere la maggioranza dei voti ponderati complessivi (58.976 su 100.186 globali).

È francamente difficile non pensare che i prossimi Consigli provinciali siano nelle mani degli amministratori elettori delle città e dei Comuni maggiori. Ma un Consiglio così eletto potrà ricordarsi che anche a Barbona ci sono anziani e studenti che hanno bisogno di un autobus?

Crepa n. 3). Le province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria diventano “città metropolitane” (art. 1, c. 6), cui sono attribuiti tutti i servizi previsti per le province e qualcosina in più, come, ad esempio, le “reti di servizi e infrastrutture”, i “servizi pubblici”, la “promozione dello sviluppo economico e sociale” per l’intero ambito metropolitano (art. 1, c. 44).

Ebbene, qui il “sindaco metropolitano” non si elegge proprio, perché la massima carica “é di diritto” del “sindaco del comune capoluogo”. (art. 1, c. 19). Dunque, anche se, per esempio, Venezia e Reggio Calabria hanno meno di 1/3 degli abitanti del restante territorio e Firenze è solo il 37% della popolazione dell’area metropolitana, i cittadini di questi capoluoghi voteranno per tutti anche il nuovo potentissimo sindaco metropolitano.

Crepa n. 4) La riforma del Senato appena approvata in prima lettura da Palazzo Madama (cfr art. 2 DDL 1429/14) trasforma automaticamente in “Senatori della Repubblica” i “Sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia autonoma”. E così le elezioni amministrative acquistano, ma solo in questi comuni, anche le tinte di strategiche competizioni politiche.

Tiriamo le somme. Con la legge 56/14 l’elettorato che vota i propri amministratori locali si decompone in classi, anzi in caste, alcune potentissime, altre veri e propri novelli “paria”. Nelle città metropolitane, gli elettori dei capoluoghi voteranno un Sindaco per legge incoronato anche “Sindaco metropolitano” e “Senatore“. Agli abitanti degli altri comuni dell’area rimarrà solo la scelta di un proprio sindaco minore o si accontenteranno di qualche consigliere metropolitano. Nelle province ordinarie, poi, chi abita nei capoluoghi o in comuni urbani avrà consiglieri che determineranno da soli l’elezione di Presidente e Consiglio. Chi ha votato consiglieri in comuni più piccoli si dovrà accontentare di aver scelto, al massimo, qualche comparsa non protagonista.

Il quadro è lampante: elettori e amministratori delle città e delle aree urbane sono diventati sensibilmente più determinanti rispetto agli omologhi delle aree rurali, sostanzialmente espulsi dalle nuove istituzioni “di area vasta”. E’ una dinamica sconosciuta questa per cui, di fronte alla gestione di servizi e funzioni pubbliche che riguardano in modo omogeneo territori vasti, vengono invece attribuiti agli elettori, tramite i consiglieri comunali, pesi e ruoli tanto differenti. Al punto che per scuole, strade e autobus di “campagna” le simpatiche popolazioni rurali potranno solo confidare nella generosità personale dei nuovi amministratori provinciali, designati dai potentissimi consiglieri comunali urbani, con buona pace degli artt. 3 e 48 della Costituzione, ove ancora si legge che “tutti i cittadini … sono uguali … senza distinzioni di condizioni sociali”, per cui anche “il voto” di ciascun elettore deve essere “uguale”.

Cui prodest? Nessuno ha avuto la cortesia di spiegare come si sia arrivati a un assetto istituzionale provinciale di tal fatta, né il dibattito sembra essersi concentrato sulle gravi conseguenze che deriveranno dal prossimo voto del 12 ottobre, che formalizzerà la divisione del territorio italiano in classi e caste. Di certo, sarà un caso che il centrosinistra vada “fortissimo nelle aree urbane” riuscendo a “fare il pieno nelle città o comunque nei sistemi urbani” (cfr www.youtrend.it, su flussi elettorali). E sarà ancora certamente un caso che i capoluoghi delle città metropolitane siano praticamente tutti a guida PD.

Rimane comunque un vero peccato, per chi ha scritto la legge 56/14, che la Costituzione non preveda fra gli obiettivi della Repubblica la “egemonia democratica” . Almeno per ora.

 

 

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