De Carli: “domenica no work”, numeri ed esperienze a confronto
Da anni, in occasione di ogni festa comandata l’opinione pubblica si divide in due accese tifoserie: da un lato prevalentemente i lavoratori di queste imprese (ma anche Confcommercio, Confesercenti, la Curia) , dall’altro i consumatori.
Molti dei provvedimenti del governo Monti venivano giustificati con la famosa frase “Ce lo chiede l’Europa”.
Dopo alcuni anni risulta che l’Europa ci abbia chiesto parecchie cose per comprendere fino a che punto potesse arrivare il nostro autolesionismo. Per fare un esempio a caso, ad Amburgo, il supermercato più liberista apre da lunedì al sabato dalle 8.00 alle 21.00. Molti esercenti invece chiudono addirittura nel primo pomeriggio, il sabato.
Gli Amburghesi (come tutti tedeschi) hanno un mercato del lavoro molto flessibile, con orari assai flessibili e annessi problemi di conciliazione eppure non sentono l’impellente bisogno di comprare di notte e sanno accettare che il Primo Maggio i negozi possano essere chiusi.
Paiono essere cioè riusciti nella titanica impresa di rimanere persone raziocinanti pur vivendo nella città più ricca della Germania, senza trasformarsi fisiologicamente in consumatori compulsivi.
In termini poi di modernità una metropolitana funzionale e funzionante, treni regionali veloci, puntuali e puliti, li consoleranno certamente di non potersi fregiare di un Self h24.
Sempre loro poi non risparmiano i sindacati, che invece di fare inutili battaglie di retroguardia dovrebbero contrattare condizioni migliori per i lavoratori. Andrebbe spiegato a questi ideologi dello consumismo un tanto al chilo che la contrattazione non è un diritto esigibile per tutti e che gli accordi che un po’ ovunque si stanno facendo non sono in grado di risolvere tutti i problemi.
Per certe aziende della grande distribuzione la domenica è divenuta la seconda giornata di maggiori incassi, incassi in parte orientati da promozioni mirate, incassi che si spostano da altre giornate, incassi che nemmeno per errore vengono destinati almeno in parte agli addetti che le domeniche come nei festivi consentono materialmente che le serrande si alzino.
Una sentenza della Corte di Cassazione che salvaguarda il diritto del lavoratore di astenersi dalla prestazione festiva, porrà forse un freno agli appetiti famelici di molte aziende del settore che si erano spinte a prevedere nelle lettere di assunzione l’obbligo di lavorare a Natale.
Andare a fare la spesa la domenica o il 25 aprile può essere una opportunità che con un minimo di organizzazione si può evitare di cogliere senza conseguenze letali. Evitare di portare i bambini al centro commerciale a svernare, preferendo un parco o una mostra, non può che fare bene al loro futuro e al nostro presente.
Ma entriamo sempre più nel dettaglio.
Alla fine del 2014 la Camera ha approvato una legge restrittiva che impone la chiusura dei negozi per almeno 12 giorni festivi all’anno: un duro colpo alle liberalizzazioni introdotte nel 2011 dal governo Monti. Ora che il ddl è in discussione alla Commissione Industria del Senato, si sprecano gli emendamenti per introdurre ulteriori vincoli, con proposte di aggiungere altre decine di giorni di chiusura obbligatoria. E questo per la gioia di vescovi e sindacati, insolitamente uniti per questa battaglia in difesa del riposo domenicale.
Per capire se queste restrizioni sono giustificate o meno basta guardare alcuni numeri. Si riferiscono a 30 Paesi europei e mostrano il livello di liberalizzazione durante gli anni tra il 2000 e il 2015.
L’Italia fa parte del gruppo di 7 Stati (con Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Portogallo e Spagna) che ha progressivamente liberalizzato le aperture domenicali dei negozi, seppure con notevoli differenze tra una situazione e l’altra: in Italia nel 2015 si è arrivati alla deregulation totale, in Germania ci si è fermati solo a qualche autorizzazione per un numero limitato di domeniche. L’Italia del 2015 è addirittura più liberale della patria del liberismo, la Gran Bretagna. Dove invece le regole restrittive non sono mai cambiate è in Austria, Belgio, Grecia, Paesi Bassi, Norvegia e Svizzera.
Ci sono poi 13 Paesi europei (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Svezia) dove le aperture dei negozi di domenica sono state rese illimitate da prima del 1999.
Dati ed esperienze che parlano chiaro e dimostrano quanto sia necessaria e popolare, nel senso più autentico della parola, la battaglia della #DomenicaNoWork.
Mirko De Carli