Dall’Huffington Post – Tre senatori “avvertono” il governo. Renziani preoccupati per la maggioranza che si assottiglia

CONFERENZA STAMPA SULLA RIFORMA DEL SENATO

HUFFINGTON POST – di Andrea Carugati – Difficile spiegare a un qualunque osservatore europeo cosa sia il Gal, il gruppo Grandi autonomie e libertà del Senato italiano dove oggi sono affluiti tre senatori guidati da Mario Mauro col marchio Popolari per l’Italia (con lui il sottosegretario Angela D’Onghia e Tito di Maggio). Il Gal è una costola del centrodestra, dove siedono eletti con il Pdl e con la Lega, un ex sottosegretario del governo Prodi 2, Paolo Naccarato, e anche Giulio Tremonti. Dove alcuni senatori, come lo stesso Naccarato, Michelino Davico (ex leghista che lasciò il Carroccio folgorato da Enrico Letta) e Pietro Langella (già Udc, poi Pdl e Fi) votano più o meno stabilmente con il governo mentre i vertici del gruppo, da Mario Ferrara a Antonio Scavone ne sono più o meno fieri oppositori. “Ci siamo andati perchè è una sorta di gruppo misto del centrodestra”, spiega ad Huffpost Mario Mauro, già ministro della Difesa del governo Letta e orfano di quell’esecutivo. “Da qui vogliamo lavorare per ricostruire un centrodestra popolare alternativo al Pd, a tutti gli amici ricordo che in Europa i popolari sono alternativi ai socialisti”. Mauro annuncia che la fiducia al governo Renzi sarà tutt’altro che scontata: “Non certo a scatola chiusa, decideremo caso per caso, il governo dovrà convincerci, mi pare difficile poterla dare a questa legge di Stabilità che scassa i conti dello Stato…”.

Parole inusuali per un alleato, ancorchè part time. Ma Mauro è convinto che la Grande coalizione nata dopo le elezioni del 2013 sia archiviata, “questo è un monocolore renziano, e un nuovo centrodestra non si costruisce facendo i cespugli del Pd”.

L’operazione guarda indubbiamente a destra, magari a un ritorno da Berlusconi, dove Mauro viene guardato ancora con sospetto, dopo il tradimento del 2012, quandò mollò il Cavaliere per seguire Monti.

E tuttavia quello che conta sono i numeri di palazzo Madama, dove Renzi vede ballare altre tre pedine, che fino ad oggi venivano considerate sicure, visto che il gruppo Per l’Italia (scisso dai montiani di Scelta civica un anno fa e composto da 10 senatori) fa parte organicamente della maggioranza. Ora sono rimasti in sette, sommati a Pd e Ncd in totale fanno 153 voti sicuri per il governo. Cui si sommano una dozzina di senatori del Gruppo per le autonomie, un altro contenitore variegato composto da minoranze linguistiche, i socialisti di Nencini, l’ex grillino Battista e i due senatori a vita Rubbia e Cattaneo. A questi numeri si aggiungono alcuni ex grillini come Orellana e Campanella che ogni tanto votano con la maggioranza (sul bilancio Orellana è stato decisivo).

Non proprio quella maggioranza chiara che Renzi aspira a realizzare con l’Italicum, anche se fino ad oggi nei voti di fiducia il governo non è mai sceso sotto quota 155 (a rischio visto che la metà più uno dell’assemblea è 161), raggiungendo nel febbraio scorso il tetto di 169.

Nel Pd c’è chi derubrica la mossa di Mauro e soci ai “soliti balletti dei centristi”, ma Giorgio Tonini, membro della segreteria Pd e segretario d’Aula vede le insidie di una “maggioranza che si assottiglia”, e che sopravvive più che per una compattezza interna grazie alle “maggioranze variabili” che si vanno componendo. “La differenza rispetto all’ultima legislatura di Prodi”, spiega Tonini, “è che l’opposizione non è un moloch conpatto, ma sono tante: da Sel alla Lega, da Fi al M5s. E raramente votano compatte. In queste ore, ad esempio, sulla giustizia Forza Italia è contro di noi e il M5s vota con noi”, ragiona Tonini. “Nell’aula del Senato c’è uno sfrangiamento che finora ci consente di andare avanti non dico con tranquillità, ma con un margine di sicurezza”. Del resto anche oggi con svariati voti segreti sulla responsabilità delle toghe, il governo ha tenuto botta.

Mario Mauro in queste ore è stato contattato riservatamente da Luigi Zanda, capo dei senatori del Pd. E con Zanda l’ex ministro avrebbe usato parole assai meno dure sull’atteggiamento futuro della sua truppa, almeno nei voti di fiducia. Si vedrà nei prossimi giorni, con le fiducie assai probabili su Jobs Act e legge di Stabilità. Di certo c’è che il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani ha speso parole di elogio per l’operazione: “E’ maturo il tempo perché riparta una riflessione sul futuro dell’intero centrodestra. Si aprono nuove prospettive per quello che Forza Italia ha sempre indicato come percorso obbligatorio per rivolgersi, e tornare a rappresentare, l’elettorato moderato. Lavoreremo ad una piattaforma programmatica comune”.

Già nella scorsa estate Mauro era stato uno dei più duri oppositori della riforma costituzionale, in un insolito asse con Sel, M5s e i dissidenti Pd di Chiti e Mineo. “Si rischia una forma di autoritarismo alla Putin”. Oggi i toni sono un po’ meno duri: “Non vogliamo essere succubi o cespugli di Renzi”. A ritirare i due sottosegretari dall’esecutivo, però, nessuno ci ha pensato. Uno è Angela D’Onghia (Istruzione), l’altro è Domenico Rossi, alla Difesa. “Sono scelte che spettano al governo, non a noi”, taglia corto Mauro. Tonini non la pensa così: “E’ evidente che se dovesse mancare la fiducia al governo i due sottosegretari non potrebbero restare al loro posto, per una banale ragione di coerenza…”.

L’operazione di Mauro e soci, che hanno rotto con il gruppo dove siedono Casini e i suoi, prefigura una svolta a destra. E anche una sfida a chi, tra i centristi, “sembra folgorato sulla via del rottamatore…”, per dirla con Mauro. Tito di Maggio, in conferenza stampa, manda un altro segnale poco rassicurante per il governo: “Sono sicuro che nei prossimi giorni altri si uniranno a noi nel Gal”. Il riferimento è a Ncd, dove ci sarebbero “malumori per la deriva del partito verso il Pd”. Nomi non ne vengono fatti, ma l’obiettivo di Mauro e dei suoi è costruire un contenitore aperto agli alfaniani delusi, una sorta di stanza di compensazione prima del ritorno ad Arcore. Per Renzi è una piccola opa ostile, che potrebbe anche risolversi nell’ennesimo bluff. Nell’ennesimo spasmo della palude centrista. Ma Di Maggio insiste: “Il governo in Senato è già sul filo di lana, non ci vuole molto per farlo ballare…”.

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