GENOCIDIO ARMENO/Mauro: Quanto ci costa dire che quello fu un genocidio
La Croce – contributo di Mario Mauro – La Comunità internazionale, nel corso del secolo XX, definito come il «secolo dei genocidi», si è trovata dinnanzi alla pressante necessità, emersa fin dal conclusione della prima guerra mondiale, di reprimere e prevenire i più gravi crimini commessi su larga scala contro le comunità umane e contro i singoli, sia in tempo di pace che in tempo di guerra.
A questa necessità si è tentato di far fronte, percorrendo tre direttrici fondamentali: la prima è consistita nel definire con sempre maggior pregnanza, sul piano del diritto sostanziale, i crimini internazionali, quale premessa per poterli punire. Oggi con l’espressione «crimes under International Law» si intendono i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, il genocidio e il crimine di aggressione.
La seconda direttrice percorsa si pone sul piano della giurisdizione e ha condotto all’istituzione delle corti internazionali oppure al conferimento ai giudici nazionali del potere di giudicare gli autori dei crimini internazionali, riconoscendo loro una giurisdizione cosiddetta “universale”. Di questo sforzo si ha testimonianza già dopo il genocidio degli Armeni, sebbene le clausole contenute a tal fine nel Trattato di Sévres del 1920 siano state disattese dopo la sua sostituzione con il Trattato di Losanna nel 1923. L’istituzione di un giudice internazionale, falliti i tentativi successivi alla prima guerra mondiale, “passa” per Norimberga (1945-1946) e, dopo l’esperienza dei due Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia (1993) e il Ruanda (1994), finalmente trova un approdo nella Corte penale internazionale permanente con la firma dello Statuto di Roma (1998).
La terza direttrice che segna l’evoluzione degli strumenti di prevenzione e repressione dei crimini contro l’umanità e dei crimini internazionali in genere è quella della cooperazione internazionale e dell’attribuzione agli Stati di una responsabilità di proteggere e di prevenire tali crimini. Sul contenuto degli obblighi di protezione si è espressa la stessa Corte internazionale di Giustizia nel Bosnian Case concluso nel 2007 in cui si è affermato, tra l’altro, con espresso riferimento al crimine di genocidio, che il giudizio sulla violazione degli obblighi preventivi attribuiti agli Stati con la Convenzione contro il genocidio del 1948, è un giudizio autonomo rispetto a quello di responsabilità per la commissione del genocidio e comporta, in caso di accertamento della violazione della disciplina pattizia, una condanna dello Stato alla riparazione nei confronti delle vittime.
Sullo sfondo del percorso qui descritto in tre tappe, si pone, come dato costante, la sempre maggior interazione tra le diverse branche dell’International Law e precisamente tra l’International Humanitarian Law, l’International Criminal Law e lo Human Rights Law. Questa interazione trova il proprio punto di partenza già nella Conferenza di Teheran delle Nazioni Unite sui diritti umani del 1968.
Desidererei ora brevemente soffermarmi sulla prima delle tre direttrici che ho sopra menzionato, vale a dire sullo sforzo compiuto dalla Comunità internazionale di sempre meglio definire sul piano del diritto sostanziale i crimini internazionali e soprattutto i crimini contro l’umanità e il genocidio. Questo sforzo mi pare, infatti, fondamentale nella prospettiva di tutela dei diritti umani e di prevenzione dei crimini internazionali dal momento che essi richiedono, anzitutto, per essere prevenuti e puniti di essere definiti normativamente e compresi nella loro offensività.
L’espressione «crimini contro l’umanità» è stata utilizzata per la prima volta con un’accezione prettamente giuridica esattamente 100 anni fa, il 24 maggio 1915, proprio all’inizio del Medz Yeghérn, quando, con la Joint Declaration of France, Great Britain and Russia del 24 maggio 1915, i Paesi dell’Intesa informarono la Sublime Porte che avrebbero ritenuto responsabili i membri del Governo turco e tutti gli agenti direttamente coinvolti delle violenze compiute contro gli Armeni a partire dal mese di aprile, le quali da lì a breve avrebbero assunto le dimensioni di un genocidio.
Da quel primo utilizzo, i «crimini contro l’umanità» sono stati inseriti nella Carta di Londra dell’8 agosto 1945, istitutiva del processo di Norimberga, quindi negli Statuti dei Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda, adottati con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 1993 e del 1994. Infine, nel 1998, con la stesura dello Statuto di Roma, i crimini contro l’umanità sono andati a comporre l’elenco dei core crimes perseguiti dalla Corte penale internazionale, insieme al genocidio, ai crimini di guerra e al crimine di aggressione.
Limitando l’attenzione alla disciplina dello Statuto di Roma, sono oggi crimini contro l’umanità, le condotte di «murder», «extermination», «enslavement», «deportation or forcible transfer of population», «imprisonment», «torture», «rape or any other form of sexual violence», «persecution against any identifiable group or collectivity on political, racial, national, ethnic, cultural, religious, gender», «enforced disappearance of persons», «apartheid», «other inhumane acts». Questi atti diventano crimini contro l’umanità se sono «part of a widespread or systematic attack directed against any civilian population», senza che sia necessaria per la loro perpetrazione, lo stato di guerra.
Pur con alcuni lievi variazioni, i crimini contro l’umanità sono oggi puniti anche dagli Statuti dei tribunali a composizione mista, interna ed internazionale, istituiti in Cambogia, a Timor Est, in Kosovo.
All’interno della categoria dei «crimini contro l’umanità», a partire dalla formulazione della Carta di Londra, sono poi andati ad individuarsi con sempre maggiore pregnanza i fenomeni di distruzione dei gruppi umani, a Norimberga ancora chiamati «crime of persecution».
La comprensione della peculiarità di questa particolare tipologia di offesa rivolta alle comunità umane in quanto tali segnala l’esigenza linguistica e normativa di usare un nuovo termine e di tipizzare un nuovo crimine, che è, appunto, quello di genocidio.
Per genocidio, termine creato nel 1944 dal giurista polacco, di origini ebraiche Raphael Lemkin (1900-1959), si intende l’uccisione o la lesione provocata a membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso; l’imposizione volontaria al gruppo di condizioni di vita dirette a provocarne la distruzione totale o parziale; l’imposizione di misure miranti ad impedire le nascite all’interno del gruppo; il trasferimento forzato di bambini da un gruppo ad un altro. Ciascuna di queste condotte, per aversi genocidio, deve essere commessa con il fine di distruggere anche solo parzialmente il gruppo protetto, senza tuttavia che tale evento di distruzione necessariamente si debba realizzare.
La definizione normativa di genocidio, a cui si è ora fatto cenno, risale alla Convenzione Onu del 9 dicembre 1948. Oggi la stessa definizione si rinviene nello Statuto del Tribunale per la ex-Jugoslavia e in quello del Tribunale per il Rwanda, come pure nello Statuto di Roma, che disciplina la Corte penale permanente.
Il crimine di genocidio è stato definito dal Tribunale per il Ruanda come «the crime of crimes», cioè come il crimine più grave che l’uomo possa commettere.
È corretto questo giudizio? Mi pare che la definizione sia ineccepibile perché a ben vedere il genocidio nega nella maniera più radicale – ricorrendo alla distruzione fisica dei gruppi umani – il bene della relazione, riflesso della natura sociale dell’uomo. Ciò è vero per due ragioni essenziali: innanzitutto il genocidio raggiunge, almeno potenzialmente sotto un profilo quantitativo, l’apice della violenza, poiché l’intent to destroy the group può coinvolgere, almeno potenzialmente, la totalità dei suoi membri. Non solo; la vittima, che del gruppo fa parte, non può da questo uscire per scampare ad un tragico destino di morte perché la sua identità le è impressa sulla base di un carattere indelebile di cui, anche volendo, non può liberarsi.
Sotto un profilo qualitativo, poi, il genocidio è il crimine che maggiormente offende il senso morale e giuridico dell’uomo; infatti, su un piano ideologico, trova la propria radice nella negazione totale della diversità di chi non appartiene al gruppo dei carnefici. La diversità delle vittime può essere destinataria solo di un atto di annientamento, cioè di eliminazione definitiva. È in tal senso che il genocidio, ancorché spesso commesso per ragioni politiche, rappresenta in realtà l’antitesi per antonomasia dell’esperienza politica che connota il vivere insieme dei singoli e delle comunità in vista del bene comune, nell’inesauribile sforzo di comprendere ciò che, tra gli uomini, è comune ciò che è diverso. Bene ha fatto quindi Papa Francesco a chiamare le cose con il nome nome: genocidio.