Il sogno dell’integrazione
Agli inizi del 900 negli Stati Uniti gli emigranti andavano a vivere gli uni accanto gli altri, per spalleggiarsi, per sostenersi nella comprensione del mondo nuovo che era estraneo e difficile. Nel tentativo di confortarsi e sentirsi meno soli e perduti si ritrovavano nei riti della socialità, nel tentativo di conservare la memoria della propria identità, che era fatta anche di feste comandate, di abiti di lingue e di cibo. Interi quartieri assunsero così in breve tempo, i colori le forme, persino gli odori delle città dei paesi che si erano lasciati alle spalle. Little Italy, China Town. Chi ha avuto l’occasione di passeggiare per le strade di questi quartieri, sa che è possibile in poco spazio, passare dalle Ramblas di Barcellona ai Boulevard di Parigi alle strade di Buenos Aires le strade di Palermo, i vicoli di Napoli, in questi quartieri che li accoglievano, ricreavano pezzi della loro identità, per non perdere il senso della comunità.
Le generazioni successive, hanno mantenuto le loro radici culturali ed etniche, pur inserendosi perfettamente nei paesi in cui sono nati, figli o nipoti di emigranti, chiunque sia stato negli Stati Uniti, sa bene che il Melting Pot l’intreccio di razze e religioni, usi e costumi diversi è pilastro della società. Che l’integrazione sia perfettamente riuscita, questo è un altro problema, certo. Le tensioni che periodicamente, esplodono, tra la popolazione di colore e la polizia, nei quartieri dei Latinos, sono lì a dimostrare che c’è ancora tanta strada da fare, che nessuno insomma ha la soluzione dentro la tasca. Ma è innegabile che in quel paese, così come in America latina, una forma di convivenza e coesistenza di etnie diverse, si è trovata. Il presidente Barack Obama è simbolo vivente di queste differenze. Papà Kenyota, mamma del Kansas, nonna Hawaiana, però lui è americano.
Da una decina di anni l’Europa invece è squassata da attentati che colpiscono le sue città, che vengono compiute da uomini in gran parte giovani, che sono nati in quelle stesse città, ma che le odiano. In cui non si sentono parte integrante.
Quello che è successo ora a Parigi è stato una di una serie Tolosa, Bruxelles, Copenaghen a Londra, a Madrid nel 2004 ci sono stati 191 morti e più di duemila feriti e tra un attentato e l’altro, qualcuno moriva per avere pubblicato delle vignette. In tutti i casi, gli attentatori erano nati negli stessi stati. I quartieri etnici, che un tempo erano mete di turisti, oggi sono zone abitate dalla paura, zone franche, fuori dal controllo nazionale e locale. A Londra, ad esempio, ci sono aree a forte rischio, dove di sera vige il controllo delle ronde fondamentaliste, che minacciano chiunque non vesta o non si comporti come loro dicono, ad esempio bere una birra, non esistono cartelloni pubblicitari che dimostrino bevande alcoliche o abiti alla moda o donne e di strumenti musicali perfino. Non è tutto così ovviamente, non è dovunque così, ma la tendenza è quella. In questi luoghi incontrollati, viene professata la religione all’ odio a persone nate in occidente, ma che non si sentono europee. Il sogno dell’integrazione, si infrange in queste vie, dove sono nati e cresciuti quasi tutti gli attentatori che hanno insanguinato la nostra Europa… Sono partiti 1550 volontari, che combattono al fianco dell’ Isis, in Siria, in Iraq. In Belgio, non va meglio, a Bruxelles sede delle istituzioni europee, c’è un quartiere che si chiama Molenbeek, un’area di sei chilometri dove vivono in centomila per lo più islamici, il 30% ha meno di trent’anni. Gli inquirenti lo definiscono una delle culle jiaidiste dell’Europa, la centrale del reclutamento, lì si parla solo arabo. Arabe sono le scritte dei negozi, non ci sono donne che non siano velate. Qui hanno vissuto i peggiori attentatori, qui sono state noleggiate le auto e qui è nato il commando che ha attaccato Parigi. Da questa località, sono partiti poco più che cinquecento giovani per combattere a fianco dell’Isis. Ma cosa sta succedendo al sogno dell’integrazione europea, cos’è che non sta funzionando.
Non bastano i disagi sociali dei quartieri di periferiche, a fornire spiegazioni di un fallimento al sogno di cooperazione che sta affondando nel sangue di centinaia e centinaia di vittime innocenti. Il disagio che sicuramente è innegabile, non basta a spiegare questo. I nostri immigrati in Belgio che lavoravano nelle miniere, venivano stipati in baracche che noi non metteremmo nemmeno gli animali. Nonostante questo, a nessuno dei nostri immigrati è venuto in mente di dare nemmeno un pugno ad un belga, di sparare nemmeno un petardo. Ma cos’è che non ha funzionato, occorre chiederselo presto, per avere una risposta plausibile, di cui abbiamo necessità. Perché il sogno di un’Europa unita, aperta e solidale, altrimenti corre il rischio di infrangersi contro quei muri ostili che qualcuno sta costruendo, adesso nel sui interno, nel suo stesso cuore.
Antonio Russo